LE PAGINE DI FEDELE MASTROSCUSA
Le due Terre
Le due grandi Terre erano una volta una sola. Quelli della Terra Alta scendevano alle dimore degli Altri, in cadenze di giorni, e con un gesto con uno sguardo con un passo davano consigli e aiuti nelle opere. Erano le due Terre, l'Alta e l'Altra, segnate al loro incontro da un fiumicello limpido e quieto, agevole in ogni tratto al guado. I bimbi degli Altri giocavano sulle rive e nelle acque, carezzevoli e non perigliose.
Lentamente, nel giro degli anni, quel velo liquido che non arrivava al petto di un bimbo di cinque anni si appesantì: il solco divenne largo e profondo, e il fiume separò le due Terre. Gli Alti venivano più di rado nell'Altra, attraversando senza impedimento le Acque, docili e mansuete al loro passaggio. Per ammaestramento mostrarono agli Altri la costruzione di un ponte.
Tracciarono delle figure nella sabbia: "Quando le due Terre saranno separate, segnerete queste figure, con l'opera delle mani, ma, prima, con il volgere del vostro canto. Nell'onda assorta del coro, tremore d'anima e di suono, nasce la figura. E sarà a voi ponte verso la Terra Alta". Altri canti, intorno all'albero grande, creavano sulla sabbia fina altre onde, altre figure; ("sulla docile sabbia il canto scrive", sentì il poeta, ma la mano tremò, ché gli tremava il cuore nel guardare troppo indietro, e trascrisse "sulla docile sabbia il vento scrive").
Più tardi, soltanto di notte scendevano gli Alti, e aiutavano gli Altri senza farsi scorgere, compiendo le opere interrotte, cominciandone nuove. Gli Altri, nella loro Terra ormai disgiunta dalla Terra Alta che appariva come nuvole e foschia, in turbinìo di cielo e mare agitati, costruivano piccoli e grandi ponti, e talora credevano così di poter raggiungere la Terra Alta, che sapevano che c'era ma non sapevano più dove si trovasse.
La cadenza delle stagioni, nutrita dal respiro delle stelle, divenne per gli Altri come le foglie che il vento tardo dell'autunno ammucchia morte, e poi disperde. Se qualcuno, qua e là, anche solo con il gesto lieve, un alito, delle mani, o con un lampo rapido degli occhi, ricordava la Terra Alta e il ponte, il ponte vero, tutti gli Altri lo guardavano come un folle, e lo lasciavano solo. Alla sera l'ombra dell'uomo in solitudine si allungava, come un braccio proteso, verso il valico lontano.
Perduta l'arte del canto e del ponte, continuarono gli Altri a costruire ponti nella Terra Altra che le Acque, ribellanti e furiose, avevan tagliata in frammenti e separata. Continuarono l'uso del canto, fuori dall'ora del rinascere della luna, e la musica non modellava più la sabbia la pietra le piante e i corpi, ma operava come la tempesta quando disvelle, infrange, sconvolge, trascina. Nel sogno rivelatore che si avvicinava ai cuori sonnolenti comparve l'immagine di uno che col canto incantava le pietre gli alberi gli animali, e subito fu ucciso da coloro che avevan perduto la memoria del canto e del ponte. Fu ucciso perché ricordava il tempo quando gli Alti scendevano in aiuto degli Altri, dapprima nel giorno unico, poi nella notte.
E quando uno segna, con il gesto con la parola, la Terra Alta, gli Altri, pur separati e franti e incerti, si radunano fieri e concordi, con pensieri di sangue, contro l'intruso.
I fratelli del canguro
Innumerevoli e sconosciuti fratelli ha il canguro. Fratelli senza coda e senza marsupio, dispersi, e ben celati per l'occhio non esperto, in entrambi gli emisferi. Astuti e ingannevoli fratelli che non si cibano d'erba né spiccano ampi e ritmati salti.
Anche i bimbi non ancora alfabeti, o appena proto-alfabeti, dai solerti genitori avviati a navigare su Internet son venuti a sapere che il canguro prese il nome da una ricerca sul campo. All'esploratore che chiedeva quale fosse il nome dell'insolita bestia, l'indigeno rispose che non lo sapeva (a che serviva il nome se la bestiola lo ignorava, e non si fermava né si voltava per quante volte la chiamassero?), e quel "kangaroo" ('non lo so') fu affibbiato al saltatore. Così in una vivace prosa di Heine un giramondo capitato in un paese straniero apprende che quelle fabbriche erano di Nonlosò, il palazzo maestoso anche dello stesso, e così via, fin che accodandosi a un funerale solenne chiese chi fosse morto, e gli risposero "Non lo so". E rimase a meditare sul destino di Nonlosò.
Ma altri fratelli siffatti ha il canguro un po' dappertutto. Canguri grossi e piccini, come leoni leoncelli, leoncini, e cucciolotti come quelli che affollavano la celletta di un eremita della Tebaide, per uno scherzo giocoso del diavolo. E i canguri di taglia maggiore li troviamo nei topònimi.
Prendiamo qualche esempio: a Bourdeau, nella Savoia, la contrada Les Teppes (le collinette) diventò Les Steppes (e forse oggi una guida turistica cita la somiglianza con le steppe russe); così nella Provenza un contadino richiesto del nome della zona rispose "Lou sabé pas" ('non lo so') e il rilevatore segnò Loussabépas, e la risposta "Es la miéu" ('è la mia') divenne il toponimo ufficiale Eslamiéu. Sono esempi noti agli specialisti, e per essi e tanti altri basta consultare il prezioso e non sorpassato Les noms de liéux del Dauzat. Ma non c'è bisogno di andar lontano, nel tempo e nello spazio: nel Parco del Pollino, la cui perimetrazione fu fatta con il criterio usato a Versailles per i confini delle neo nazioni, compare un viadotto Romania (il turista straniero non sa se leggere Romanía o Romània, il nostro non se ne accorge nemmeno) da una fonte "Acqua del Demanio" (in pronunzia locale), e da presso, sempre sull'Autostrada del Sole, figura una Cabala, da un locale cabàlla, dal francese cabelle, poiché di là passava la via del sale, dalle miniere di Lungro verso la Lucania. Altro altrove.
Il canguro più vistoso eccolo lassù, sulle dolòmie del Pollino: il Dolcedorme, dove puoi scorgere qualche aquila che volteggia, e un attimo prima ti pareva un pastore avvolto nel mantello scuro, seduto su una roccia.
Inutile porgere una domanda indiretta e cauta al vecchio pastore d'una masseria sottostante: ti offrirà una ricotta fresca, e anche un bicchiere di vino (dell'uva di Terranova) e poi ti spiega che lassù puoi vedere il profilo di un gigante che dorme. Ti vien da sorridere, come per il Fabio di Gerhard Rohlfs: il grande Rohlfs, linguista insigne, esperto delle sfumature dei nostri dialetti, talvolta sonnecchiava, come si dice del buon Omero: il nostro fabbiu – che vale 'colombaccio', dal greco antico phabion – fu ricondotto al nome Fabio.
Se trenta o quarantanni fa parlavi con un vecchio legnaiuolo, pratico della montagna, gli avresti sentito dire che dal Piano del Pollino era salito in vetta, e poi disceso subito r' 'u Scilormu ('dallo Scilormo') per la nebbia che avanzava. Chi fosse estraneo dei luoghi, pur non ignorante della parlata, poteva intendere ruci rormi (che è la base del "Dolce Dorme", come scrivevano nell'Ottocento). Ma Scilormo (anch'esso dal greco) è un toponimo frequente nelle zone di montagna. E in sede opportuna è agevole dirimere tutta la questione. Ma qui non si vuole andare fuori dal tema, che è dedicato ai canguri. E il Dolcedorme è un ottimo esemplare di canguro, come ci pare di aver dimostrato.
Fragmentum (1964)
CARLO Eccomi finalmente da te.
FRANCESCO Ti ho atteso tante volte.
CARLO Ora soltanto è giunto il momento.
FRANCESCO Così è per tutte le cose. Attendi mesi, anni, perché ancora non sono mature. Ma dimmi di te.
CARLO Di me? Troppe cose, e forse non le dirò. Ti dico solo che mi sento fresco e rinnovato.
FRANCESCO La mia casa porta serenità a chi arriva su, dal mondo.
CARLO Come son giunto all’orlo del bosco ho visto, tra gli alberi, l’arco di cemento che va dal fianco del monte a questo pendio.
FRANCESCO E’ stato veramente un valico.
CARLO Dall’inquietudine e dall’ansia alla pace. Dal mondo a questa breve oasi tra le rocce.
FRANCESCO Ho sognato a lungo questa casa. Cento volte l’ho costruita col pensiero finché è maturata quassù, di pietra di calce di legno. E’ un approdo. Ma parlami di te.
CARLO Vedi, sto bene; dimostro appena venticinque anni, anche se ne ho dieci di più.
FRANCESCO Vedo che stai bene, nel senso corrente della parola. Ma non è questo che volevo chiederti. C’è nei tuoi occhi, nei gesti, un’angoscia che ancora ti domina.
CARLO E’ per questo che sono venuto. E non è stato facile giungere qui, non è stato facile decidermi a venire.
FRANCESCO Sediamo qui, presso la vetrata. Ci ascolta soltanto la valle profonda e le rocce. E gli alberi che nascono da isole di scogli.
CARLO Forse al nostro discorso si mescoleranno altre voci.
FRANCESCO La voce del vento, certo. E degli alberi.
CARLO Altre voci, umane.
FRANCESCO Rari amici mi raggiungono qui in alto.
CARLO Altri ospiti saranno con noi.
FRANCESCO Che vuoi dire? Hai invitato qualcuno? La mia casa è la tua.
CARLO Non ho invitato nessuno, ma ho portato con me...
FRANCESCO Ti ho visto solo. Perché non hai fatto entrare?
CARLO Sono entrate con me...
FRANCESCO Non comprendo...
CARLO Ecco, questo pacchetto e quest’altro: sono lettere.
FRANCESCO Chi viene con te è mio ospite. Benvenute con te anche le lettere che porti. Ti avranno dato dolore, ma ora sei lontano dal mondo, in alto, nella solitudine.
CARLO In alto, verso la solitudine salgono le ansie. C’è una parola lontana: il fumo dei loro tormenti sale in alto, per sempre, per sempre.
FRANCESCO Ti ascolto, le ascolto, le ansie, le lettere.
CARLO E’ un peso lieve, di dieci o dodici lettere, ma mi sembra di tirarmi dietro un macigno, come nell’incubo.
FRANCESCO Ora sei giunto alla meta. Presso l’amico. L’amico vero, nelle ore della più acuta sofferenza, sa essere un limpido specchio, dove guardi la tua pena, e mentre la guardi si dilegua. Parla.
CARLO Parleranno queste lettere, con la voce di chi le scrisse. Sono due creature, dolci ed avverse, che la vita ha fatto confluire in me. Due correnti che non si mescolano, entro la mia vita. Lieve una voce, limpida come una chiara corolla mattutina; calda l’altra e ricca e come un frutto maturo al meriggio. La prima la chiamerò Driade, l’altra Giulia.
FRANCESCO La prima ha la voce limpida, l’altra calda.
* * *DRIADE «Vieni con noi alla gita. Domani mattina alle sette, a casa mia». Soltanto queste parole ho scritte; non è una lettera; appena un biglietto su mezzo foglio a quadretti strappato dal quaderno di mia sorella. Avrei proprio voluto scrivere una lettera, lunga. Ma se tu sai leggere queste due righe, esse ti diranno le tante cose che volevo dire. Ci siamo rivisti dopo tante settimane, proprio come il naviglio che non poteva non poteva navigare; o sono tanti anni? Appena mi hai riconosciuta. Un saluto freddo e sostenuto; da tanto tremore interno parole quasi fredde. Vieni, vieni domani; dammi la gioia semplice di rivederti, solo a sola. Non riesco a comprendere perché sei sgomento. Mi vuoi apparire freddo, come se tu non fossi giovane. Dammi la gioia di vederti domani, di sentirti vicino...
GIULIA «Ci vedremo stasera. Mi dirai tante cose. Tua Giulia». Ti prego, mio caro, non dirmi che sono fredda con te, che ti scrivo troppo poco. Temo che altri leggano il biglietto; come ieri sera ho raccolto, caduto dalla tua tasca, il foglietto con l’invito ad una gita di famiglia.
Hai svegliato in me tanta musica, eppure ti sento lontano. Il tuo animo è lontano. Una volta sola ti ho sentito tremare. Eravamo entrati nel cinema, mi ero seduta, e tu eri vicino, e mi tenevi ancora per mano come mi avevi guidato nel buio. Nessuna tenerezza ancora fra noi! Sentii il bisogno di avvicinare la tua mano alla mia bocca. Prendo il tuo dito fra le labbra, senza stringere, e lo riscaldo al mio fiato... Così ti saluterò stasera, senza dire alcuna parola. Perché parlare? Le parole non dette volano intorno a noi in forma di luce e colori, e la dolcezza di una carezza lieve, foglia che sfiora foglia, ci addensa sulle palpebre una nuvola violetta...
FRANCESCO Perché vuoi richiamare le voci lontane, le malinconie sommerse? Perché ti fermi innanzi l’albero caduto? Sono tanti intorno gli alberi nuovi, vivi.
CARLO Non sono voci sommerse, malinconie lontane. L’albero vivo, se lo guardi, lo vedi domani gettato a terra; il tronco morto, se lo guardi, ti dice che fu vivo.
FRANCESCO Il giorno di ieri è morto; è inutile evocarlo alla vita. Domani è un nuovo giorno, il nuovo giorno.
CARLO Quel che visse ieri vive ancor oggi; il gesto, la voce di giorni lontani rigermogliano nel sangue, e si mescolano alla tua carne. E le ospiti ritornano a parlare.
* * *GIULIA Dentro di me è nata una fontana viva di riconoscenza per te, per le tue mani, così dolci e curiose. Camminavo inebriata, come se mi fossi svegliata per la prima volta. Nella calma sera questo sapevo: che nel mondo ardeva un fuoco, e quel fuoco ero io. Poi il gelo notturno. Perché la tua anima è lontana da me, come se fosse su un’altra stella? Ascolto le tue parole, dolci; ma non mi parli dei tuoi pensieri, dei tuoi sogni, della tua vita passata. Tu non mi lasci entrare nella tua vita; resto sulla soglia come una timida schiava.
DRIADE «Affettuosi saluti dalla spiaggia». Quattro parole e la mia firma. Oh, leggi, caro, anche quello che non scritto. Una breve passeggiata insieme. Disinvolti, come è disinvolta la gentilezza di due estranei. Ho compreso, non dalle parole, le tristezze dei tuoi giorni passati, le ansie dei futuri, l’inquietudine di oggi. Se chiudo gli occhi, mi rivedo al tuo fianco, mentre salivamo il sentiero contro il vento, riodo le parole non dette.
* * *
DRIADE Camminare così con te contro il vento. Questo soffio umido della prossima pioggia mi modella per te. Ansiamo un poco. Con te la stanchezza non mi stanca.
CARLO Sei così bella! Non è il vento; non è la salita; ma tu, tu mi togli il respiro Non voglio toccare la tua mano, mi basta sfiorarla.
DRIADE Questo sentiero non dovrebbe finire. Perché temi di toccarmi? Se mi accarezzi, divento più bella. C’è il sentiero e il cielo, e noi due, soli.
CARLO Non siamo io e tu, uno e due. Dentro di me tutti gli uomini, dentro di te tutte le donne. E il loro timore, e quel che fu già detto, e fu già fatto.
DRIADE Siamo come il re e la regina della favola. Tutto è nostro, se la gioia è nostra.
CARLO Siamo l’antico schiavo e l’antica schiava.
DRIADE Cammineremo sull’orizzonte.
CARLO Si cammina oggi su un fragilissimo sostegno; e spesso si rompe, ed ecco l’uomo cade nella servitùdel lavoro, cade la donna nella servitù del piacere. Siamo l’antico schiavo e l’antica schiava. Schiavi di altri schiavi, in una catena che non si riesce a interrompere. Non tremi?
DRIADE Ho tremato presso di te. E non perché agosto è morto ed avanza settembre. Un gesto d’amore, una calda parola non mi è venuta da te. Caro, caro, hai tenuto l’anima sempre stretta, alla mia, troppo stretta, come nella ressa d’un treno affollato, ma tu sei rimasto lontano, non hai voluto toccarmi. Ogni volta che ti vedo, mi pare di perderti. Guardami come i miei occhi ti guardano, entra nella mia vita come un vento...
* * *FRANCESCO Il vento squassa gli alberi, e s’infrange contro le rocce. Qualche tronco rotola sulla strada, e interrompe ogni via col mondo.
CARLO Sì, la furia del vento. In giorni e notti di desolata tristezza, quando la morte è vicina e ti strappa una creatura del tuo sangue, quando il principio di vita vuole distaccarsi dal corpo, ecco si leva il vento impetuoso, e devasta il giardino che quella creatura aveva amato. Come scorgevano una volta al letto di morte l’angelo nero e l’angelo bianco che si contendevano l’anima del defunto, così, presso la morte, compare una tempesta di vento.
FRANCESCO Si rimane sgomenti, e quasi ebbri, dinanzi alla violenza dell’acqua e del fuoco. E del vento. Come se gli dei manifestassero la loro forza. Noi sfruttiamo il vento e l’acqua che ci volgan le turbìne; e il nostro tentativo è ridicolo: come di chi raccogliendo una pianta rara ricca di medicamenti che riscaldano il sangue se ne servisse per accendere un fuoco. O chi adunasse le donne più belle della terra per metterle a trasportare letame. La sapienza e la bellezza sono schiave nel cuore degli uomini.
CARLO E’ un torbido crogiolo il nostro cuore: vi fu posto il metallo nobile e lo trasformammo in vile.
FRANCESCO Ancora il vento. Che vuole? Ha la voce di quando non è riuscito a sradicare gli alberi. Chi chiama? Bussano!
FRANCESCO Un momento, un momento. Datemi il tempo d’aprire.
1º BOSCAIOLO Un albero caduto su un’automobile che veniva quassù; si è capovolta, ha cominciato ad incendiarsi. C’era soltanto quest’uomo.
2º BOSCAIOLO Posiamolo qui, sul divano. Non ha nessuna ferita, pare, ma è rimasto sempre svenuto. Così, sposta il cuscino, bene.
1° BOSCAIOLO Attento, è caduto qualcosa dalla tasca. Lettere; scusi, le metta sul tavolo.
FRANCESCO Ma che cosa è accaduto? Queste lettere erano già sul tavolo; sono scivolate di qui.
2° BOSCAIOLO Saranno altre lettere.
FRANCESCO Ma dov’è andato il mio amico?
1° BOSCAIOLO Quando siamo entrati abbiamo visto soltanto Lei.
FRANCESCO Là, era seduto sulla sedia.
2º BOSCAIOLO Forse è andato nell’altra stanza.
FRANCESCO Ma... chi è quest’uomo? Dove l’avete trovato? Carlo! Com’è possibile!
1° BOSCAIOLO Forse sta riprendendo i sensi. Si agita...
CARLO Dove sono? o amico, Francesco! Volevo venire da te, ma non so come sono giunto.
2° BOSCAIOLO Un albero si è schiantato sulla macchina. Lei è svenuto, e noi l’abbiamo portato quassù.
CARLO Ricordo solo il vento; e mi venne innanzi agli occhi un giardino devastato. Il vento squassava gli alberi e s’infrangeva contro le rocce.
1° BOSCAIOLO Ora è stanco, ha bisogno di riposare. Siamo lieti che sia un suo amico. Che veniva qui l’avevamo già compreso: la strada porta solo a questa casa.
CARLO Sì, è così.
FRANCESCO Ora ha bisogno di riposo... Anch’io... Tutti abbiamo bisogno di riposare, dopo questo vento.
2° BOSCAIOLO Allora noi andiamo. Il vento tace.
1° BOSCAIOLO Se avete bisogno di qualcosa...
FRANCESCO Grazie, grazie. Neanch’io sto tanto bene. Mi duole la testa. E’ il vento. O un po’ di emozione. Anche tu, Carlo, vorrai riposare. Grazie di tutto quel che avete fatto per il mio amico. Buona notte.
BOSCAIOLI Buona notte.
FRANCESCO Vuoi un cordiale, Carlo? Come ti senti?
CARLO Mi sento bene ora. Soltanto una sensazione di leggerezza alla testa; come se stessi sospeso, e potessi muovermi in alto e in basso.
FRANCESCO Ecco, bevi.
CARLO Ti trema la mano, vecchio mio. Sei molto pallido, come se la morte avesse sfiorato te. Com’è la tua salute?
FRANCESCO Buona, Carlo. Ma stasera sono stanco.
CARLO Non bevi?
FRANCESCO Bevo anch’io... Riprendi queste lettere?
CARLO Dove le hai trovate?
FRANCESCO Ti sono scivolate già dalla tasca, mentre eri ancora svenuto.
CARLO Le hai lette?
FRANCESCO No... perché dovevo leggere lettere che appartengono a te?
CARLO Permetti che le bruci, al caminetto? E’ un segreto. Non ne parleremo.
FRANCESCO E’ un segreto. Non ne parleremo.
CARLO Fatto. E ora ti chiedo un letto. Ho un sonno terribile, come se non avessi dormito da dieci giorni.
FRANCESCO Andiamo: parleremo domani.
* * *CARLO Mai mi sono svegliato così fresco, così nuovo.
FRANCESCO E’ l’aria della montagna.
CARLO E’ la tua ospitale amicizia.
FRANCESCO E’ il pericolo di ieri sera.
CARLO Forse questo. Come nel sonno si ristorano le forze, così è avvenuto nel mio lungo svenimento. Ho dimenticato il groviglio che mi tormentava. Era cominciato come un gioco di fanciulli, con una sorta di contrasto, come il vento di primavera che soffia ora da una parte, ora dall’altra. Poi, il gorgo è diventato sempre più profondo, e non c’era nessuna ragione per risalirlo, e nessuna ragione per continuare. Ma ho distrutto tutto. Con quelle lettere. Che furono un dolce cominciamento, un prato di fiori che poi cela un precipizio.
FRANCESCO Che cosa ti crucciava?
CARLO Non lo dirò. Tutto bruciato.
FRANCESCO Puoi bruciare la carta. Non l’anima delle creature, non i grovigli di pensieri e sentimenti che le agitarono. Puoi sì cancellare l’orma, non chi la impresse.
CARLO Ti dirò la conclusione. Con la franchezza della nostra vecchia amicizia. Non so proprio non so se l’albero cadde improvviso sulla macchina; forse potevo evitarlo, e non volli. Un attimo, compresi il pericolo, ma non tentai di evitarlo. Rimasi immobile; come la forma si riempie di metallo, mi sentii tutto invadere dallo stupore. Dove leggemmo che gli dei calavano un velo sugli occhi ai morituri, perché il destino si compiesse? E gli uomini inconsci bendano gli occhi di coloro che credono di poter uccidere. Allora pensai solo a te, al tuo fraterno aiuto; e mi svegliai qui portato da mani pietose.
FRANCESCO Sì, è stato così.
CARLO E ti vidi così pallido, e lessi nei tuoi occhi la morte che io avevo incontrata; ti sentii spaventato di vedermi...
FRANCESCO Sì.
CARLO Avevo un segreto, uno sgomento indicibile, un groviglio intorno a me di creature e di cose, avverse, ma come sono opposte la radice e la chioma d’un albero; l’una s’alza al sole, l’altra s’affonda nella terra.
FRANCESCO Ho anch’io un segreto, recente; ma non lo dico. E la tua immagine m’aiuta: ho sentito d’un tratto, come un fulmine che illumina tutto e sorprende nella notte il sonno delle cose, ho sentito che la chioma dell’albero e la radice non sono avverse. Ma i nostri occhi dicono il falso: nel bosco ci lascian vedere gli alberi come nel disegno di un bambino: su da una linea sorgon il tronco e i rami, sotto non si vede niente; non vediamo le radici che danno sostentamento a tutta la pianta.
CARLO Di coloro che ci stanno accanto, che ci amano o ci odiano, vediamo il contorno fisico; ascoltiamo le parole del momento; ma quelle figure, quelle parole hanno radici profonde. La foglia può essere amara e la radice piena di virtù; e la foglia amara nutrisce la segreta virtù della radice.
FRANCESCO Forse è l’anima della montagna che ci fa pensare e parlare di queste cose.
CARLO Quand’ero fanciullo, nel nostro giardino, fantasticavo sulle favole antiche; e mi pareva di scorgere da ogni pianta divincolarsi una creatura, vedevo gli occhi supplichevoli della prigioniera: gli occhi di Driade.
FRANCESCO Anche noi siamo prigionieri. Dentro una corteccia, dentro una conchiglia che noi stessi ci facciamo e ci portiamo dentro.
CARLO Un sogno, un sorriso, un ricordo, un miracolo possono fendere la corteccia.
FRANCESCO Lo so; è il mio segreto.
Pierino il zappatore
A Pierino era stato incollato questo soprannome non per un'occasione o per un'attitudine personale – come tornare fischiettando alla mensa parca ed ecologica – ma per una tradizione familiare mantenuta e migliorata.
Il suo pentàvolo (bisàvolo del trisàvolo) era stato zappaterra, e così i discendenti fino a lui, che fu il fiore della stirpe.
Pierino non soltanto andava a zappare nel suo poderetto attiguo alla vigna di Renzo, o per i compaesani, o per il curato, ma all'andata e al ritorno invece di fischiare pensava all'opera fatta e a quella da fare. Si appassionò talmente al lavoro che nelle ore libere rimuginava sulla origine, sullo sviluppo e sulle finalità della zappatura.
Con mezzo secolo d'anticipo sulla degnità numero trenta virgola quarantadue del perduto protomanoscritto vichiano – chi comincia ad acquisire i princìpi d'un'arte riconduce ad essi la storia, la fisica e la metafisica – si convinse che rivoltare le zolle impigrite e strappare le erbacce (weedhooking diceva Bacone) era il dovere dell'uomo virtuoso. E poiché una follìa maestra ne genera altre – parola di Ludovico Muratori a proposito della Fantasia Umana; l'avesse saputo l'uomo di Pescassèroli avrebbe liquidato definitivamente il dannunzianesimo, tagliandolo alla radice – tutti i terrazzani gli davano ragione.
Cominciò con il seminato di Anatolio: sulla collinetta il grano germogliava fitto e folto come il monte di Venere di Afrodite. Pierino si levò ch'era ancora notte, e in tre giorni – il paese era andato tutto alla fiera di Benevento, a comprare noci e bottiglie di Strega – zappò il campo. I vicini furono contenti (dolor tuus gaudium meum, secondo il detto d'un medico della Chiesa) e durante la domenica del villaggio esaltarono l'opera di Pierino. Anatolio, per evitare il linciaggio (che allora si chiamava in un altro modo) dové confessare di essere stato indulgente con le erbacce, e per fornire un riscontro congruo volle enumerarle ad una ad una, dall'Allium Ursinum alla Zeuglodontia, che non è un'erba ma un cetaceo fossile, ma gliela passarono per buona.
Felice del successo – all'inizio aveva qualche dubbio sull'accoglimento integrale della sua dottrina – Pierino continuò a zappare dovunque. sempre e dovunque. Fu rivoltato il prato di Beppe, l'orto della Mariangela, il vivaio di Giobatta. Ci fu anche il fatto della 'grasta'. La giovinetta, costretta dai genitori a cancellare l'amoretto platonico, aveva piantato nella grasta una ciocca dei capelli dell'amato, e l'annaffiava con le lagrime. Pierino andò a caccia d'erbacce anche nella grasta al davanzale della Gertrude, e rivoltò tutto fra gli sghignazzi delle ragazze dirimpettaie che di don Alonso avevano avuto ben più che un ciuffetto rossigno.
Prima o dopo toccò a tutti; e il fatto passò alla storia con il nome di 'botanoclastia', come sanno gli specialisti che a quella vicenda hanno dedicato una trentina di volumi.
L'ultimo figlio di Carnèade
Ultimo, s'intende, fino a oggi, ché figli ideali, eredi della qualità di semisconosciuti, nasceranno ancora, degni di fama ma destinati a essere travolti dalla nebbia dell'oblio.Così accadde al capostipite (cittadino di Cirene, intermedio fra Aristippo e l'adusto Simone che depose il fascio di ramaglie per addossarsi la trave della croce), che pur preannunciò, con diciotto secoli di anticipo, il principio di Bonaventura Cavalieri: la somma degli indivisibili venendo a formare un divisibile, una quantità finita, come già l'accumulo e la condensazione dei 'probabili' costituiva la certezza della cognizione. Ma don Lisander, gettando ombra su ombra (ché da allora il filosofo divenne simbolo di ciò che è ignoto), intendeva forse vendicarsi di un padre barnabita che gli aveva imposto il penso Probasne Carneadis probabilia ?.
Il figlio di Carnèade di cui è causa, è Nicola Leoni, lo storico, citato continuamente da chiunque tracci, o creda di tracciare, una ricerca sulle Calabrie; quasi mai letto, di rado consultato direttamente, perciò semisconosciuto. Ma se è giusto alle sette e sette opere di misericordia aggiungere un'ottava, corporale e spirituale insieme, ricordare i dimenticati, conviene segnarne un ritratto.
Nato alla sera del sabato 25 luglio 1812, alla sera del martedì grasso 8 febbraio 1842 fuggito da Morano per andare a Napoli verso una vita di folle studio, alla sera del sabato 13 agosto 1892, spentosi nella casa paterna che gli porse ultimo asilo, fu Nicola Leoni sacerdote integerrimo, erudito, ombroso, perspicace. Ribelle contro l'ambiente della Morano fine anni trenta (novemila abitanti, poco meno di cento religiosi viventi in uno stracco conformismo), ribelle più tardi – né accampò pretese per il rimpatrio che nel '57 gli inflisse la polizia borbonica, ma un ministro borbonico, lo Scorza di Morano, gli ottenne la revoca – per l'ambiente post-unitario della Napoli risorgimentata, con fermenti di corruzioni vecchie e nuove. Ribelle non a parole o con pamphlets faziosi o con gesti plateali e intemperanti, ma con lo studio e con le opere, alieno dalle promiscuità e dal contagio di piccole o grandi consorterie, in una solitudine spregiosa e tetra.
Il bambino nato in Via Santa Chiara (che c'è ancora con la casa e la casata) dai genitori ventinovenni, il calzolaio Leonardo e la cucitrice Maddalena Severini, cominciò la vita entrando nella notte; il sacerdote trentenne, ignorato dai concittadini, vessato dal superiore, fugge di sera, andando incontro alla notte e alle intemperie; il vecchio rientrato nella casa natìa comincia l'ultimo viaggio nella notte.
Spirito notturno e saturnino (tra i due sabati: della nascita e della morte) in cerca della luce. Nella visita alle saline, allora di Altomonte ieri di Lungro, con gesti e parole concitate ordina alla guida di riportarlo alla luce. Ricerca poi ansiosamente, e ne ristampa gran parte negli studi storici, le poesie di Tommaso Campanella, altro spirito notturno, anelante a una città del Sole. E, insieme con la ricerca della luce, splende in Nicola Leoni un desiderio intenso di comunione, ché ad una sua prosa premise come motto "Ahi, quanto a travagliata anima è dolce | annoverare altrui la propria pena", versi di uno Shaw, ovviamente poeta romantico inglese, anch'egli, carneadamente, sconosciuto.
L'esperimento di Urgog
Nel regno di Urgog, prima di Gog e Magog (cioè prima di Papini), l'ultimo sovrano, illuminato e costituzionale, attuò un esperimento che prese, appunto, il nome di quella terra lontana.
Nelle ultime tre o quattro generazioni gli Urgoghini invece di attendere ciascuno alle proprie faccende (secondo il principio che più tardi la XIII tavola sancì come 'rèspice mèntulam tuam') lasciavano casa famiglia campo e bottega per l'assemblea di quartiere sul tema del buon governo. Fino a quel tempo, al plenilunio dopo l'equinozio d'autunno dell'anno bisestile il re s'affacciava al balcone (come ricorderà un poeta 'apre balconi e logge la famiglia') e ad alta voce chiedeva "Popolo, vuoi per ministri Tizio, Caio e Sempronio?". Se il popolo era d'accordo, i tre diventavano ministri. In caso contrario era proposta un'altra terna, e così via, fino all'approvazione. La cerimonia era piuttosto rapida, dato che il sovrano leggeva i nomi proposti dai capi delle tribù.
Ma i consigli di quartiere non erano soddisfatti, e chiedevano riforme e libertà. Il sovrano, ch'era illuminato e costituzionale, nominò una commissione per la riforma elettorale, e partecipò ai lavori. Si giunse presto a un'intesa. Il popolo di Urgog fu diviso, parcellato in quattro gruppi. Il primo, di controllo, avrebbe votato come in precedenza; gli altri avrebbero applicato le opzioni A, B e C. Il sistema A prevedeva una scheda doppia con tre righe: a sinistra i nomi dei preferiti, a destra quelli degli aborriti o rifiutati. Allo scrutinio veniva conteggiato il rapporto per ogni candidato dei sì e dei no. Ad esempio, Pig aveva 1000 sì e 500 no, e otteneva il coefficiente 2; Pog con 2000 sì e 1200 no, otteneva 5/3: Pig superava in graduatoria il candidato Pog.
Molto più semplice il sistema B: si mettevano nell'urna (come quella del lotto) i nomi di tutti gli eleggibili, e poi si estraevano tre biglietti (paese beato con tre ministri che erano anche deputati e senatori, e segretari di partito e confederali!).
L'ultimo sistema, il C, era ancora più semplice, e più scientifico, come se l'avesse inventato Galileo mentre fingendo di ascoltare il panegirico fissava il lampadario che ciondolava. Secondo la legge delle proiezioni si prevedeva una sola sezione elettorale di 157 iscritti: il risultato sarebbe stato valido per tutto il gruppo.
L'entusiasmo del popolo traboccava, come se ci fossero i Giochi senza frontiera. Venne l'equinozio, venne il plenilunio, venne l'elezione parcellata. Il giorno 12 ottobre furono proclamati i risultati: secondo la previsione del re – tenuta segreta in una busta depositata presso un notaro – i quattro gruppi furono concordi sui tre eletti; né si poté sospettare di un patteggiamento col cervellone, perché il computer era ancora nella mente del diavolo.
Per riconoscenza immediata, il sovrano geniale fu esiliato, e il suo nome cancellato dall'anagrafe. Anche Urgog scomparve dai libri di storia, e se non fosse stato per Papini che ne dette un accenno sottinteso non ne sapremmo più niente.
Silicone e sociologia
Il pantòlogo (anche pantògrafo, ma questo titolo non lo gradiva perché dava adito a omonimie disvianti) Nerino Bianchi era preoccupato. Persona normale, non ricco ma agiato di vizi e di virtù, giovane poco sopra i trentanni (adolescens avrebbero detto i romani, ragazzo diciamo oggi), ammirava le giovani donne in teoria e in prassi [...].
A un certo punto il nostro Bianchi (per evitare omonimie e banalità aggiungeva talora il cognome materno ch'era Smith) camminando per le strade (via ad deambulationem pertinet, mormorava come profeta delle isole pedonali), entrando in un ufficio (col cuore del protocristiano spinto nell'arena), recandosi al suo lavoro di pantological job manager, trovava donne tutte, e sempre,avvenenti, irresistibili, non solo a distanza nel corpo e nelle movenze, ma anche nel viso, nelle labbra, nelle fossette. Viveva in un'estasi continua, insaziata.
Poi venne a sapere ch'era merito del silicone, iniettato nel labbro superiore, nelle guance, nel seno, nei glutei, nelle cosce, sì che ognuna era, come dicevan due secoli fa, tutta Veneri.
Concepì un odio mortale contro il silicone; si costruì – l'odio aguzza l'ingegno – un paio d'occhiali con lenti di quarzo del Madagascar, trattato a bagnomaria con orina di lèmure, occhiali che brevettò Desilic: non lasciavano vedere il silicone: sgonfio appariva il labbro turgido, pendulo e floscio il seno, striminziti e sgualciti glutei e gambe. In compenso Nerino godeva la vista di qualche ragazzotta, prima del cursus honorum: dimagrimento, depilazione, aborto, siliconamento.
Ma nel mondo non c'è solo il sesso e il sex-appeal. Vi sono i piaceri della mente, e il brain-appeal, che è unico, compatto, totale, senza esclusioni, senza distinzione di maschio e femmina. Omero, Dante, Goethe, Eco, sono tutti per tutti.
Il nuovo entusiasmo travolse il nostro. Non poteva, tuttavia, contattare i primi tre, né avere un colloquio, intenso e soddisfacente, col terzo, che è impegnatissimo, e vive ai margini dell'Olimpo.
Ma Nerino Bianchi non era incontentabile, anzi, per usare un termine dell'informatica, largamente compatibile. Era felice quando poteva conversare con persone dotte, colte, compiacenti. Rimaneva ammirato, e sgomento – in virtù di una semplicità roussoviana che hanno tutti coloro in cui c'è qualche stilla di sangue degli Smith – della loro preparazione, vasta e integra, senza strappi e sdruciture, lucida e densa. Cercò, e seguì, giovani e meno giovani. Un giorno s'accorse ch'erano tutti, tranne i grandi, iniettati di sociologia. Le parole fluenti, gli scritti a laborinti, i gesti disinvolti, fin che ti credevano uno dei loro, erano tutti lievitati di sociologia, assunta per contatto, per irradiazione, per convezione.
Allora si mise a studiare per inventare gli occhiali Desociol, anzi non occhiali ma orecchiali, secondo una parola dimenticata di Tommaso Campanella. Il progetto di simulazione fu agevole, e riuscì ben presto: basta un buon programma, e puoi sapere se l'astronave arriverà a Plutone prima della prossima eruzione del Vesuvio. L'esecuzione degli orecchiali è ancora in corso, per la difficoltà intrinseca di costruire un transistor col topazio del Topakistan. Ma quando saranno pronti, Nerino avrà compiuto la sua seconda grande impresa.
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