Italiano e Inglesi del XIX Secolo. Appunti su Mary Shelley***
Cinzia Mastrascusa
INTRODUZIONE
Con queste parole Charles Lamb si rivolgeva nel 1825 a James Henry Leigh Hunt allora in Italia:
ILLUSTREZZIMO SIGNOR […] I accompany this with a volume. But what have you done with the first I sent you? – have you swapt it with some lazzaroni for macaroni? – or pledged it with a gondolierer for a passage?1
Il tono è divertito, col gioco della rima, e tre italianismi di larga diffusione che sono un po' il compendio di una certa visione inglese dell'Italia: Venezia, Napoli, le gondole, la povertà, e la pasta.
L'Italia nell'Ottocento, in declino ormai la moda del Grand Tour, rappresentava ancora la meta privilegiata per gli inglesi che la visitavano attraversandone frettolosamente cultura e paesaggi naturali, o l'eleggevano a propria dimora per la mitezza e la salubrità del clima, o a volte rifugio per esuli inquieti. Il paese vagheggiato da lontano, terra d'arte e di sole, si rivelava più spesso agli occhi di questi viaggiatori avvilito dalla miseria e dall'asservimento, popolato di imbroglioni, ignoranti e disgustosi mangiatori d'aglio2. Essi non ne conoscevano la lingua, non potevano comprenderne lo spirito.
Venivano, è risaputo, con un italiano fatto di reminiscenze letterarie e operistiche che per lo più non traeva conforto dal contatto diretto coi nativi, e per la ritrosia a mescolarsi cogli indigeni, e per l'incontro con varietà di lingue diverse o lontane da quella letteraria che, eventualmente, era loro familiare3.
Ciò vale per i viaggiatori in senso stretto, ma è estensibile e condiviso in parte anche da quanti scelsero l'Italia per viverci più o meno stabilmente4.
Tuttavia un cambiamento si era avuto. Dopo l'assenza forzata dal continente durante il periodo napoleonico, scrive un anonimo redattore della Westminster Review, gli inglesi che tornarono a riversarsi oltre la Manica, simili nel numero e nell'ansia di avanzare ai "Norwegian rats", lo fecero con uno spirito nuovo, scaltriti dall'esperienza di chi li aveva preceduti. La preferenza accordata all'Italia dai tanti emigranti, continua lo scrivente, al secolo Mary Shelley, aveva dato origine a una nuova razza, quella degli anglo-italiani:
The Anglo-Italian has many peculiar marks which distinguish him from the mere traveller, or true John Bull. First, he understands Italian, and thus rescues himself from a thousand ludicrous mishaps which occur to those who fancy that a little Anglo-French will suffice to convey intelligence of their wants and whishes to the natives of Italy […] Without attempting to adopt the customs of the natives, he attaches himself to some of the most refined of them, and appreciates their native talent and simple manners; he has lost the critical mania in a real taste for the beautiful, acquired by a frequent sight of the best models of ancient and modern art.
Upon the whole, the Anglo-Italians may be pronounced a well-informed, clever, and active race; they pity greatly those of their un-Italianized country-men, who are endowed with Spurzheim's bump, denominated stayathomeativeness; and in compassion of their narrow experience have erected a literature calculated to disseminate among them a portion of that taste and knowledge acquired in the Peninsula5.
Intenta a dissipare errori e superstizioni sul Bel Paese, questa Anglo‑italica6, che pure in altre circostanze indulge a critiche generiche e a facili stereotipi, si lascia andare a lodi sperticate che, quando deplora il disinteresse dei propri connazionali per le genti della campagna, fra le quali è da ricercarsi il puro carattere italico, si spingono sino all'elogio dei buoi italiani "surpass[ing] in beauty of form, in the sleekness of their dove-coloured skin, and the soft expression of their large eyes, all other animals of their species"7.
* * *
Oggetto di queste pagine sarà l'italiano di Mary Shelley attraverso una lettura dell'epistolario8 ed escursioni in gran parte degli scritti "pubblici", nei quali trovano di frequente spazio giudizi e considerazioni sulla nostra lingua.
*** Il testo, con alcune modifiche, è un estratto della tesi di laurea Italiano e Inglesi del XIX secolo. Gli scritti di Mary Shelley discussa nell'anno accademico 2001-2002 presso la Facoltà di Lettere della "Sapienza" in Roma, relatore Prof. Luca Serianni, correlatrice Prof.ssa Valeria Della Valle.
1. La lettera si legge in James Henry Leigh Hunt, The correspondence, London, Smith Elder and Co., 1862, 2 vols., vol. 1º, p. 248.
2. Ecco una testimonianza di Shelley dopo otto mesi dall'arrivo in Italia, nel dicembre 1818, da Napoli:"There are two Italies; one composed of the green earth & transparent sea and the mighty ruins of antient times, and aerial mountains, & the warm & radiant atmosphere which is interfused through all things. The other consists of the Italians of the present day, their works & ways. The one is the most sublime & lovely contemplation that can be conceived by the imagination of man; the other the most degraded disgusting & odious" (The letters of Percy Bysshe Shelley, edited by F. L. Jones, Oxford, Clarendon Press, 1964, 2 vols; vol. 2º, p. 67).
3. La perplessità degli stranieri di fronte alla frammentazione linguistica italiana e alla divergenza fra parlato e scritto è un topos consumato che riprendiamo per comodità di sintesi. E' un argomento non rilevante in assoluto, che può valere per qualsiasi viaggiatore in qualsiasi terra straniera. Cosa scriverebbe un italiano che avendo letto Sidney e Shakespeare pretendesse di dialogare con un inglese d'oggi, o che usando un inglese formato BBC volesse intendersi con un contadino illetterato del Kent o con un londinese che si esprime in cockney? Nel primo caso è evidente che mancherebbero i presupposti per un giudizio fondato; quanto al secondo, è facile che fattori soggettivi spingano a sopravvalutazioni o sottovalutazioni delle differenze, e perciò la cautela è d'obbligo.
Non che la situazione italiana sia paragonabile a quella d'altri paesi – anche se non si può ignorare che per questi nostri inglesi dell'Ottocento tappa fissa erano le città toscane e Roma, e, per quanti non si avventuravano fuori dagli itinerari soliti, località turistiche necessariamente sprovincializzate per lingua; e che inoltre le frequentazioni italiane, magari poche, magari non toscane, riguardavano in genere persone colte e aristocratici che avevano consuetudine con una qualche forma d'italiano – ma le osservazioni dei viaggiatori non possono piegarsi a riprova di una specificità linguistica italiana troppo a lungo estremizzata (un'apertura antidogmatica in Luca Serianni, Percezione di lingua e dialetto nei viaggiatori in Italia fra Sette e Ottocento, in «Italianistica», 1997, pp. 471-90, che proprio nelle osservazioni dei viaggiatori rintraccia manifestazioni di un italiano parlato), né le loro difficoltà ricondursi ad essa. Tanto più che, cambiando versante, nelle sue linee essenziali il panorama non cambia. La noncuranza e la superficialità degli inglesi verso le lingue straniere era motivo di autocritica ricorrente, che ispirò anche una canzone di Charles Dibdin (Mounseer Nontongpaw, 1796), in cui Nontongpaw è l'incarnazione dell'ignoranza di John Bull il quale, mentre è in Francia, non conoscendo il francese, corrompe e reinterpreta la risposta, "Je n'entend pas", che riceve via via dall'interlocutore di turno (il testo può leggersi, con un rifacimento del 1808 attribuito inizialmente a Mary Shelley, in The novels and selected works of Mary Shelley, London, William Pickering, 1996, 8 vols., vol. 8, p. 397 e ss.).
4. "Viaggiatore" è voce usata in un'accezione molto ampia, inclusiva, a indicare una presenza straniera in Italia nella realtà piuttosto variegata. Senza addentrarci in distinzioni particolareggiate, occorrerà almeno distinguere fra i viaggiatori e i tanti che si trasferivano a tempo indeterminato per ragioni diverse, non ultima il costo minore della vita. I primi erano vicini per certi versi agli attuali turisti che partono coi viaggi organizzati; disponendo di personale incaricato di tutte le incombenze, dalla ricerca degli alloggi all'organizzazione degli spostamenti, non avevano necessità di stabilire rapporti diretti con i residenti e anzi li evitavano; i continui spostamenti nell'arco di qualche settimana o pochi mesi in lungo e in largo attraverso la penisola li portavano in effetti a scontrarsi con varietà parlate diverse. Ai secondi invece una residenza stabile assicurava un preciso modello linguistico di riferimento rendendo d'altra parte indispensabile una conoscenza della lingua che, per quanto approssimata, permettesse di far fronte alle esigenze della comunicazione quotidiana.
5. Lo scritto, apparso sulla Westminster Review (VI, ottobre 1826, pp. 325-41) a recensire alcuni libri di viaggio, è raccolto col titolo di The English in Italy in The novels and selected works of Mary Shelley, cit. (da ora Works), vol. 2º, pp. 147-63, 149. Spurzheim fu con Gall il fondatore della frenologia. La sua opera suscitò grande clamore in Europa nei primi decenni dell' Ottocento, guadagnandosi consensi ma anche critiche e derisione per la sua "teoria dei bernoccoli" (secondo la frenologia le facoltà e le attitudini umane sono localizzate in precise aree cerebrali che si sviluppano in proporzioni diverse, con volumi diseguali e protuberanze, percepibili all'esterno dalla conformazione del cranio e dalle sue sporgenze). Di qui il "bernoccolo della casalinghità" della Shelley – stayathomeativeness, 'propensione allo starsene a casa', è conio scherzoso; di qui in varie lingue la nuova accezione di bernoccolo come segno di una predisposizione o di una abilità.
6. Anglo-Italicus è lo pseudonimo adottato in due lettere all'Examiner in difesa del cantante Giovanni Battista Velluti nel maggio e giugno del 1826.
7. The English in Italy, cit., p. 155. A pagina 153 sono ricordati alcuni "ridiculous mistakes of the un-Italianized Englishman in Italy" basati sull'equivoco sul significato di "virtuoso": "A gentleman at Rome said to us one day, «These Italians have no idea of morality or virtue; the fine arts are the only things they think worth praising. I was speaking to signora D–– of a young lady whom I described as, Di gran genio, bella, amabile, e poi virtuosissima, on which the signora asked with vivacity, Davvero, si conosce forse nella musica?» [cioè: 'è nota nel campo della musica?']. We were near the same gentleman at a conversazione, he was looking over some pieces of music, when an Italian lady, apropos of his occupation, asked, «E virtuoso lei?» – «Lo spero», replied the astonished Englishman, and then turned to us remarks on the oddity of catechising a gentleman concerning his virtue".
Meglio non fidarsi di tali viaggiatori, neanche dei giudizi del pur stimato Edward Bulwer-Lytton: "He went to Italy & Sicily last winter & I hear disliked their inhabitants – to deprecate is his tone – & then a deaf man without a word of Italian to judge of Italians in a rapid journey of 5 months – si da retta a un tale forse!" (in una lettera del 17 luglio 1834). "It is impossible […] to judge fairly even of the surface of a people whose language one does not understand", scriverà dieci anni dopo (Rambles in Germany and Italy in 1840, 1842, and 1843, in The novels and selected works of Mary Shelley, London, William Pickering, 1996, 8 vols., vol. 8 p. 235; 1a ed. 1844). La sua posizione si coglie bene da questo passaggio da una lettera del 2 ottobre 1842: "Charles Dickens has come home in a state of violent dislike of the Americans – & means to devour them in his next work – he says that they are so frightfully dishonest. I am sorry for this – he has never travelled, & will write with all that irritation inexperienced travellers are apt feel – such as I felt in Germany – & I do dislike the Germans – & never wish to visit Germany again – but I would not put this in print – for the surface is all I know – & that does not deserve commemoration & vituperation".
8. Nell'edizione curata da Betty T. Bennett, The letters of Mary Wollstonecraft Shelley, The Johns Hopkins University Press, Baltimore and London, 1980-87, 3 vols. Meno significativi sotto l'aspetto quantitativo e comunque importanti per la ricostruzione di date e eventi sono i diari (The journals of Mary Shelley 1814-1844, edited by Paula R. Feldman and Diana Scott-Kilvert, Oxford, Clarendon Press, 1987, 2 vols).